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VALORIZZARE LA DIFFERENZA: UNA STRADA POSSIBILE

VALORIZZARE LA DIFFERENZA: UNA STRADA POSSIBILE

Napisane przez: Fabrizia Ferrara ()
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Credo che considerare il valore delle differenze in termini di risorse sia un buon inizio per non sentire che la barca è troppo piccola per accoglierci tutti: nell’ambito del servizio civile ho l’opportunità di stare molto a contatto con giovani come me ed adolescenti, cui cerco di trasmettere questo. Capita spesso di discutere di attualità e di quanto i modelli sociali possano influenzare la costruzione di un’identità salda e nello stesso tempo permeabile, atti di discriminazione, di bullismo e tanto altro.

In particolare, nell’esperienza che vivo direttamente, il confronto dei ragazzi con sviluppo normotipico con i loro compagni disabili rappresenta uno strumento prezioso per comunicare quanto di bello ci sia in chi è diverso. Mi sorprendo ogni giorno nel vedere quanto vivere in un ambiente che stimola e favorisce l’Integrazione possa mostrare i suoi risultati in cose semplici e stupefacenti allo stesso tempo.

Tra i titoli del Tg la notizia di Trump che vuole alzare al confine con il Messico un muro, emblema della sua politica contro l’immigrazione e contro l’ingresso di persone provenienti dai paesi islamici; solo qualche secondo dopo la prima sentenza favorevole all’omogenitorialità, pronunciata a Trento.

In che direzione stiamo andando? Tra muri che tristemente compaiono ed altri finalmente abbattuti si fa spazio il senso di contraddizione che domina il mondo, dove vige un’interminabile lotta tra punti di vista differenti che, al culmine di escalation ridondanti e battibecchi più o meno consistenti in tv, mostra com’è sempre il più potente ad avere la meglio, nell’infinita brama di supremazia degli esseri umani.

Comprendere come si possa essere buoni cittadini in questa società richiede un enorme sforzo di riflessività rispetto a ciò che l’essere umano è, a ciò che ontogeneticamente ritiene più utile per sé, al posto che si trova o che vuole occupare, al ruolo che è costretto o che sceglie di ricoprire e alla funzione che si sente chiamato a svolgere. L’essere umano è un essere sociale e, come tale, predilige il valore dell’appartenenza, quindi si trova sin da piccolo a fare i conti con l’altro.

L’altro è ciò che non sono io ma paradossalmente è quello di cui ho più bisogno per sentirmi qualcuno. La famiglia è fatta di altri che ben presto vengono integrati nel “Noi” quando c’è qualcuno che non ne fa parte, il “Noi” distingue i fratelli dai genitori, i grandi dai piccoli, la classe diventa il “Noi” a scuola perché esistono altre classi: questi concetti tanto semplici e quasi scontati dicono già molto su quale sia la necessità adattiva di delineare” l’Altro da noi” per riconoscerci.

Più aumentano le dimensioni del confronto, più l’”Altro” inizia ad assumere sembianze minacciose per il senso del “Noi” rendendo necessario un fronte che, se da un lato accentua l’unione e il senso di appartenenza al proprio gruppo e garantisce confini, finisce per contrapporre il “Noi” all’altro, “delimitando il territorio”, indebolendo e screditando l’Altro, tenendolo fuori, spesso perdendo di vista la sua condizione perfettamente analoga alla nostra, fosse solo per la sua appartenenza al genere umano.

Fenomeni come il razzismo, il radicalismo, il nazionalismo, non riflettono altro che un senso di appartenenza spropositato, spesso vuoto, che ha come fine niente più che l’individuazione di uno status entro il quale possono trovare spazio e potenzialità le identità degli appartenenti, a discapito degli altri che si trovano in condizioni di disagio, di nascita, economiche o religiose differenti. E’ la differenza a garantire un “Noi” ed un “Altro”, l’appartenenza al genere umano è troppo ampia per definire l’identità del singolo.

Il problema pare quindi essere il gruppo, la tendenza dell’essere umano a diventare parte di un gruppo, quella che gli garantisce di esistere. Se l’appartenenza viene definita sulla base della differenza si accentua il senso del vuoto ed aumenta la necessità di attaccare l’altro chiudendosi a qualsiasi tentativo di incontro per la paura di abbandonarsi fino a confondersi. La definizione di confini, la geografia ce lo insegna, non ha mai rappresentato una difficoltà reale, anzi, ha sempre favorito un ordine tale da consentire il confronto e lo scambio, l’essere “cittadini del mondo”.

Probabilmente il problema è rappresentato dal fatto che questi confini a volte si irrigidiscono, fino ad essere ricoperti di mattoni, fino ad entrare nelle case e a ridurre così l’appartenenza al genere umano all’essere solo ed esclusivamente sé stessi, a finire in sé stessi e a non lasciare “nessuno a protestare”.

Ma non finisce qui per fortuna, c’è chi si batte per valorizzare le differenze piuttosto che strumentalizzarle, sono questi per me i buoni cittadini, dai quali cerco di prendere esempio, quelli che sentono di appartenere ma all’interno di confini flessibili, quelli che non hanno paura di confondersi ma che, sicuri della propria identità, si fanno incuriosire, valutano e riconoscono all’ Altro i suoi meriti, e magari anche i suoi difetti, nel modo più sano e naturale possibile.

Probabilmente tra questi buoni cittadini ci sono i giudici che hanno emesso la sentenza di Trento, che non si sono chiusi di fronte ad un’etichetta, che hanno piuttosto voluto e cercato di comprendere cosa volesse dire per quelle persone diventare genitori. Anche di fronte a mura di mattoni, un cittadino attivo non le usa per proteggersi, guarda attraverso i fori, e se riesce sposta i mattoni, per uscire e rientrare più ricco, ma soprattutto per far entrare chi è al di là.

Nonostante studi nel campo del sociale facciano parte di un mio bagaglio personale pregresso, imparo ogni giorno qualcosa di nuovo confrontandomi con chi è diverso da me nella formazione, nella provenienza, nell’età e in altri aspetti: nell’essere un volontario, mi piace entrare ed uscire dal ruolo che rivesto e mettermi in gioco ed in discussione anche e soprattutto come persona.

Spero che il mio piccolo contributo al mondo possa derivare innanzitutto dalla mia quotidianità, perché tra l’altro ho scelto una professione, quale quella dello psicoterapeuta, in cui non c’è spazio alcuno per il pregiudizio, e dove la parola d’ordine è “accoglienza”!

 

Fabrizia Ferrara